Nel secondo soggiorno in terra nipponica mi sono dato per perso quasi subito. Avevo dimenticato la ragione per cui stavo viaggiando e scattando e non riuscivo a trovare niente di interessante da catturare…sentivo una voce che era nuova per me e non riuscivo a capirla. Dovevo ripartire da zero. Non avrei potuto ricominciare da dove avevo lasciato, ed allora decisi di ridurre tutto al bianco e nero, di non farmi abbagliare dai tanti colori di Tokyo che mi impedivano a volte di notare l’evidenza. Spesso la luce inganna. Io volevo interpretare e non solo ammirare. Cominciai a mettere in discussione ogni aspetto di ciò che costituiva una qualche certezza per me. Quello è stato un periodo di turbamento interiore, di grande confusione. C’erano questioni irrisolte nella mia vita; fantasmi che credevo ormai scomparsi tornavano a mostrarsi, di nuovo. Ogni tensione interna si ripercuoteva anche nel mio modo di pormi di fronte al mondo e, certamente, nel mio modo di esprimermi. Non riuscivo più a trovare niente che valesse la pena di essere fotografato. Quando mi accorsi della necessità di affrontare la situazione da un punto di vista radicalmente diverso attraverso il quale potessi essere in grado di interpretare quella mia nuova condizione, ricominciai a scattare, come ho già detto, in bianco e nero, e le immagini che fermai trattavano la mancanza di autostima, il dubbio, la sofferenza, l’insicurezza.