Durante questa mia terza permanenza ho infine iniziato a percepire il viaggio come un riflesso di me. Io stesso ero il viaggio. Quello che vedevo non era ciò vedevo ma era ciò che io ero. Io vedevo il mondo per come io ero. Quindi vedevo me riflesso nel mondo. Il mondo come proiezione di me stesso. Mi ero ritrovato. Io ero là ad aspettarmi, ma non mi sono riconosciuto immediatamente. Ho avuto bisogno di tempo per distinguere la mia stessa voce. Lentamente anche le immagini che coglievo diventavano sempre meno giapponesi e sempre più personali. Non la ricerca di elementi in qualche modo rappresentativi della cultura giapponese ma la rappresentazione del mio stato d’animo attraverso l’uso di colori e soggetti locali. Questa volta ero io ad usare il Giappone per esprimere me stesso, e non viceversa.
Le foto riportate qui sotto rappresentano il risultato di un personale percorso compiuto attraverso alcuni dei luoghi colpiti dal disastro occorso alla centrale di Fukushima, come Naraha-machi, Namie-machi e Tamura-machi, dove ho annotato, con le mie foto, alcune impressioni di ciò che è nient'altro se non un debole riflesso di sentimenti mai correttamente rappresentabili. Nessuna immagine di miseria, dunque. Nessuna accusa grossolana. Nessun giudizio a posteriori. Solo l’attestazione discreta di un’illusoria normalità, la consapevolezza dell’estrema determinazione e dignità di un popolo, e la volontà di far propria un’esperienza drammaticamente inimmaginabile e, nonostante ciò, a tratti, inneggiante alla vita.